Abbiamo sempre vissuto nel castello – Shirley Jackson

“A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce” è la celebre dedica che Stephen King fece sul suo romanzo L’incendiaria. E in qualche modo è chiaro il motivo per cui il Re si è inchinato: Shirley Jackson ti porta dove vuole: con la sua vocina sottile, quasi spensierata, la segui e ti ritrovi non in una cantina buia (troppo facile!) ma in un salotto perbene, stai prendendo un tè e la conversazione ha preso una piega inquietante, un battito di ciglia, un sospiro, e il sogno è virato all’incubo. Non sai più se i suoi personaggi appartengono al mondo dei vivi o dei morti.

In questo romanzo del 1962 che non sente minimamente il peso degli anni c’è un distillato di echi: la voce narrante, quella di Mary Katherine Blackwood, è come una ripresa in soggettiva. Ti permette di vedere il mondo come lo vede lei, una lente deformata – anche cognitivamente: e in questo un po’ evoca L’urlo e il Furoredi Faulkner - da cui ricostruire la storia familiare, i rapporti (decisamente ostili) con il villaggio, e una vicenda di avvelenamento mai ben accertata che ha lasciato su Blackwood House un alone di mistero, di odio, di paura.

Perché leggerlo.Le pietre miliari del thriller sono state stabilite qui, e torneranno in tutti gli autori successivi (in King sicuramente): il freak - personaggio non necessariamente buono ma certamente bersaglio della comunità; la sottile linea tra bene e male, tra normalità e aberrazione; la tensione sociale, il bullismo capaci di sfociare nel linciaggio. Poi una sorpresa: niente va come crediamo. Il castello, Blackwood House, è un incanto inquietante, forse immortale. E dalla paura collettiva nasce una devozione superstiziosa.

(B.Ve.)

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